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UNA DOMANDA SBAGLIATA SU UNA QUESTIONE GIUSTA
Caro Sandro Magister,
ho trovato interessante il dibattito sull’ermeneutica del Concilio Vaticano II. Mi permetto di intervenire con poche riflessioni sulla “questione musicale”, da sempre terreno di vivaci discussioni.
Sulla musica per la liturgia si è detto, scritto e fatto di tutto: il canto sacro pare sia storicamente predisposto alla radicalizzazione dello scontro fra le diverse posizioni, fino a farsi non di rado insanabile contrapposizione ideologica. Nonostante le nuove riflessioni post-conciliari abbiano interessato la musica liturgica nelle più varie forme espressive, la “vexata quaestio”, inutile negarlo, è stata ed è a tutt’oggi il canto gregoriano. È normale che sia così, perché esso è e resta il canto proprio della Chiesa; finché non sarà “addomesticato” e reso innocuo, questo immenso e ingombrante repertorio resta lì a creare non pochi fastidi a chi lo vuol limitare ad una pur nobile testimonianza del passato. Si sono spesi fiumi di parole e di inchiostro per dire che non ha più nulla da dire; se ne è parlato tanto, per non farlo più parlare. Ma, trattandosi del canto della liturgia della Chiesa, si finisce comunque per notare tanto la sua presenza, quanto – e forse ancor di più – la sua assenza.
Anche il gregoriano non può sfuggire alla riflessione su “continuità e rottura”, che interessa l’ermeneutica del Concilio Vaticano II. Ma urge ricordare, nel merito, il presupposto fondamentale di questa operazione: saper porre la questione nei termini corretti. Una domanda sbagliata rischia di offuscare la verità della risposta. Ed eccoci già al cuore del problema, perché è precisamente questo il “vulnus” più grave che ha condizionato l’intero dibattito postconciliare sulla musica liturgica. Per essere espliciti, la domanda sbagliata che ha attraversato l’ultimo mezzo secolo è così sintetizzabile: “gregoriano sì o no nella liturgia di oggi?”.
Nel fin troppo citato articolo 116 della “Sacrosanctum Concilium” (“La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale”), la Chiesa non dice nulla di nuovo e, a ben vedere, non fa che ribadire un’ovvietà. Lo stesso articolo, si noti, determina due situazioni apparentemente antitetiche: innanzitutto distingue il gregoriano da ogni forma musicale di ogni epoca, confermandogli una categoria di giudizio che trascende il puro fatto artistico; al tempo stesso non viene risparmiata al gregoriano la riflessione comune – prerogativa del documento conciliare – su “continuità e rottura”, orientandola però in una direzione ben diversa, se non opposta, da quella seguita negli ultimi decenni.
La domanda: “gregoriano sì o no?” è semplicemente sbagliata e non esige risposta perché una risposta chiara e definitiva la Chiesa l’ha già data e sempre confermata. Non è lì il vero problema: anzi, non avrebbe mai dovuto essere considerato un problema. “Continuità e rottura” non sono da riferire all’oggetto in quanto tale (nella fattispecie il gregoriano), bensì alla sua rinnovata comprensione, a sua volta frutto di nuove modalità di accostamento maturate in modo particolare nell’arco dell’ultimo secolo. Alla luce del dettato conciliare, si impone davvero un ripensamento del canto gregoriano – dunque, a partire da questo, di tutta la musica liturgica – secondo un rapporto complementare e non antitetico fra continuità e rottura, dove l’una (la continuità) garantisce l’efficacia e la retta intenzione dell’altra (la rottura).
La vera continuità, data dal suo essere per sempre il canto proprio della liturgia, impone la rottura, il superamento, la “ablatio” di prassi magari consolidate e di tutto ciò che, col tempo, ha finito per coprirne ed offuscarne la vera natura e la forza espressiva. Se per continuità si intendesse il puro ripristino di una prassi preconciliare o la difesa di comprensioni e concezioni cristallizzate nonché impermeabili a qualsiasi provocazione proveniente dai molti ambiti accademici della ricerca musicale, anche la rottura seguirebbe la medesima logica, limitandosi ad una opposizione uguale e contraria, orientata a far coincidere il ripensamento con la rimozione. Di fatto, il dibattito post-conciliare si è sostanzialmente appiattito e impoverito nella contrapposizione – dai contorni fatalmente ideologici – fra un gregoriano comunque indiscutibile e un gregoriano da eliminare tout-court.
La domanda malposta, di cui si è appena detto, ha prodotto vari disastri e ha suscitato altre domande altrettanto false e non meno devastanti che hanno interessato concetti alti e principi sacrosanti quali, ad esempio, la “participatio actuosa”, miseramente ridotta ad amara barzelletta. Si è via via prodotta e consolidata una situazione paradossale, in ordine alla quale perfino la normale esecuzione di una normale antifona gregoriana, da sempre auspicabile e raccomandata, si è fatta di colpo pericolo per la liturgia. Da dato oggettivo di canto proprio (ufficiale, per capirci) della Chiesa, la presenza del gregoriano nella liturgia è passata ad essere regolata dalla più aleatoria soggettività, ossia dalla benevolenza o dall’avversione del celebrante, del liturgista, del parroco, del vescovo di turno. Ciò che sorprende è la disinvoltura ecclesiale con la quale viene normalmente accolto e assecondato tale grave malinteso.
Tutto ciò è stato prodotto a partire da una domanda sbagliata. Per tornare a far domande giuste – e, come si è detto, necessarie – sul gregoriano e su tutta la musica liturgica con le sue nuove prospettive, bisogna innanzitutto fare un passo indietro, nel senso cioè di tornare a riaffermare, come prima cosa, ciò che è da sempre scontato. Nell’attuale situazione, riaffermare un’ovvietà è già una grande novità, ma è un primo passo vero – anche se triste e imbarazzante – per recuperare un’infinità di terreno perduto.
Una volta riaffermata l’intangibilità del canto gregoriano, va finalmente posta la questione seria, ovvero il senso di tale repertorio nella liturgia post-conciliare. È solo a questo punto che va con fermezza misurato il canto gregoriano sui parametri della continuità e della rottura. Alla suddetta intangibilità, che ne assicura la continuità, si dovrà necessariamente accompagnare con coraggio una vera e propria rottura col passato: una rottura fatta di nuovi studi, di nuova consapevolezza sul valore esegetico della Parola che si fa suono, di sempre nuove acquisizioni su forme, stili, antiche fonti manoscritte, tecniche compositive e prassi esecutiva che non sono nicchie per specialisti, ma che, al contrario, rendono ragione e riconsegnano alla Chiesa un tesoro liturgico-musicale vivente e ancora in gran parte da scoprire.
“Frattura e continuità” non è che l’ennesima parafrasi di quel “nova et vetera” che fonda l’esperienza della Chiesa nel tempo, ovvero la sua Tradizione. Si tratta, in sostanza, di affidarsi a quello stile ecclesiale che, con equilibrio e sapienza, reclama una costante rimotivazione dell’oggetto senza porne in discussione il marchio indelebile e il dato fondativo. Solo allora la “domanda giusta” produrrà risposte giuste.
Alle risposte giuste, tuttavia, si accompagneranno anche buoni frutti e sorprese imprevedibili solo se lo stile ecclesiale sarà mosso da autentica carità. La prospettiva – nobile e alta fin che si vuole – di un recupero e di un necessario “aggiornamento” del canto gregoriano, sarebbe poca cosa se maturasse in un clima di tiepida o forzata accoglienza. Non sembri, questo, un requisito superfluo o di poco conto per pochi illusi: il canto gregoriano, nato come gesto di amore vero alla Parola, attende presto dalla Chiesa – ad ogni livello – un altro autentico e deciso gesto di amore.
Fulvio Rampi
Cremona, 3 agosto 2011
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